servono le parole
Coinvolgere,  Comunicare

A che servono le parole?

È successo mentre Nicola Lagioia parlava dal palco dello Storytelling Festival. Ci faceva notare come la narrazione fosse lo strumento artistico più accessibile non avendo bisogni di supporti particolari, e di come sia sufficiente la voce per farne un’opera d’arte. In quel preciso momento mi sono resa conto che venivo da quattro giorni di teatro per l’infanzia, quel mondo in cui anche la parola è superflua.

E allora, queste parole servono o no?

Considerando che la piccola infanzia l’abbiamo superata da un pezzo, purtroppo, direi di sì.

Però, c’è un però.

“L’uomo non è una creatura sulla terra che ha un linguaggio, l’uomo è linguaggio.”

Marshall McLuhan

È lo stesso Lagioia che, sempre nello speech dell’evento organizzato da La Content, entra nel merito della questione spiegandola con parole diverse. La narrazione nasce orale, la trasmissione delle informazioni avveniva in un incontro dal vivo in cui il cantastorie parlava ad un discreto numero di persone. La parola, in tal caso, era viva di linfa, di colore, di carattere ed emozione, arrivava alle orecchie della fortunata platea condita di un afflato vivente che dava corpo alla voce. Questo era il rito, fatto di parola vibrante fino all’atterraggio nell’anima di chi ascoltava, e necessitava di almeno due elementi: narratore e uditore, yin e yang in continuo scambio energetico.

Con l’avvento della stampa e della scrittura in generale il rituale si è scisso in due momenti differenti: prima il narratore scrive, da solo, inventa storie e personaggi, trama ed emozioni. Solo dopo, in un altro momento molto distante dal primo, il lettore ha la possibilità di immergersi nelle sue storie. Da solo.

Nella separazione netta tra i due momenti si dipana, chiarissimo, il dissolvimento del rito.

Ma quindi, che c’entra il teatro per la piccola infanzia?

Mi sono appassionata allo studio di questo settore teatrale perché nella sua attuazione ho incontrato l’ultima, sincera, spiazzante, spontanea realizzazione del rito lontana anche, ormai, da molti avvenimenti religiosi e congregazioni di adulti.

Lo spettacolo per ‘early years’ (in inglese suona più corretto nei confronti del piccolo pubblico) rispetta il loro linguaggio e codice comunicativo, quindi le parole servono poco. Negli anni del nido, soprattutto, i bambini e le bambine hanno una comunicazione fatta di gesti, suoni ed espressioni che si trasforma in parole più strutturate negli anni successivi e il mondo del teatro si adegua al loro codice espressivo. L’insieme delle movenze, degli oggetti e delle espressioni crea piccoli quadri animati che si incontrano con i tempi dei bambini e con la loro capacità di comprensione. Spessissimo, infatti, la comprensione è preclusa agli adulti che hanno altre sovrastrutture mentali e lasciano la sala con molti punti interrogativi ma anche con una inspiegabile sensazione di aver vissuto un momento magico.

Infatti, è l’incontro tra attori e attrici sul palcoscenico e queste piccolissime persone che dà vita a momenti unici e irripetibili, come la tradizione dell’arte sacra richiede. Le loro reazioni, le parole, gli interventi, i sorrisi, i pianti, gli sguardi sorpresi, entusiasti o spaventati, i micromovimenti sono tutti parte di quella magia che rende ogni spettacolo esclusivo ed eccezionale. Il Teatro si concretizza nell’insieme di tutto questo con la consapevolezza che non potrà più ripetersi nulla del genere, esattamente come irripetibile è ogni prima volta. L’Hic et Nunc, il punto preciso in cui spazio e tempo si incontrano, è il nocciolo attorno al quale il frutto si sviluppa, il rito si realizza, rotola la prima pietra dello smottamento interiore.

Il progetto Mapping sulla piccolissima infanzia

A queste reazioni, microrecensioni dello spettacolo stesso, si interessa il progetto Mapping, presentato al festival Visioni organizzato da Teatro La Baracca -Testoni a Bologna. Una mappatura dell’estetica delle arti performative per la piccola infanzia che osserva e valorizza la relazione sensibile tra artistə e pubblico dagli 0 ai 6 anni.

Una illustrazione della mostra Il bambino spettatore, dal progetto Mapping

Respirare Visioni di teatro, Visioni di futuro è stata una sollecitazione continua, senza considerare che tante persone provenienti da tutto il mondo che si prendono cura di creare momenti di relazione con il piccolissimo pubblico creano una comunità commovente.

Lo sapevo già che in questo tipo di spettacoli la parola abdica il suo significato per dar spazio alla sonorità e all’intensità, ma vedere in scena compagnie teatrali estere che non hanno avuto bisogno di tradurre alcune parti del testo perché il risultato, nel complesso, non ha perso neanche un briciolo di intensità è stato ancor più emozionante. Perché durante il rito del teatro la trasmissione avviene attraverso la multiformità di elementi che compongono la narrazione stessa, soprattutto attraverso lo scambio di energie vibranti.

Ma quindi la parola è sostituibile?

Dalla prima stampa di Gutenberg in poi l’essere umano, convinto di aver aggirato l’ostacolo della trasmissione diretta _quindi rivolta a pochi_ per arrivare ad un pubblico più esteso, ha perso sempre di più la linfa vitale tipica della trasmissione orale, abbandonando anche l’intensità che accompagna una chiacchierata dal vivo.

Del resto, noi che di parole viviamo, che siamo pagati a cartelle di word e conteggio parole, che scoviamo nelle combinazioni più azzardate e nelle scelte più estreme il risultato migliore per raccontare la qualunque, non è proprio quel risultato che stiamo rincorrendo? Il nostro tentativo non è, forse, riempire di colore, calore, forma, dimensione delle parole che, nella stampa tipografica, hanno invece sempre lo stesso colore, la stessa temperatura, le stesse dimensioni e forme?

Non è, forse, quello che cerchiamo di fare aggiungendo emoticon ai nostri messaggi e ai nostri post?
Non è, forse, una chiarezza di significato che cerchiamo di aggiungere con i grassetti e i corsivi?

La risposta arriva sempre dal palco dello Storytelling festival, questa volta ce la regala Michele Dalai: ogni cosa può essere raccontata in più modi, il racconto può essere lineare e asettico, che guarda i fatti superficialmente e osserva solo il risultato, oppure può scegliere di riportare ogni curva, ogni inciampo, ogni backstage di un fallimento e lasciare addosso quel senso di umanità che si va perdendo.

E tu, quando scrivi, scegli di dare spazio alla velocità o all’umanità?

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